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Immaginare l’Europa

Immaginare l’Europa
Bernard-Henri Lévy, filosofo – Luogo di nascita: Beni Saf, Algeria

14/12/07

Per il filosofo Bernard-Henri Lévy, essere europei non significa appiattire le diversità nazionali in un’unità artificiale, né riprodurre i legami di appartenenza nazionale. Si tratta di una “forma mentis” che trascende le frontiere, proclamando come suoi valori il diritto, la tolleranza, la laicità e l’umanità.

Non comincerei dalla cultura… Dovremmo sempre cominciare da ciò che l’Europa non dovrebbe fare per riuscire in quello che fa. Essere un altro Stato nazionale, ad esempio.

Una nazione in più, una nazione al quadrato.

Una specie di grande nazione che va ad aggiungersi alle piccole, mettendosi alla loro testa o sostituendosi ad esse, e che si accontenta, seppure ad un livello più elevato e più visibile, di riprodurne le caratteristiche, i difetti e i misfatti.

Volere l’Europa e costruire l’Europa significa invece rompere con tutto questo.

Sentirsi europei è un modo di essere che oggi, all’improvviso, non ha più niente a che vedere con i tradizionali legami di appartenenza nazionale.

Che senso ha l’Europa se la sua missione è quella di dar vita ad una forma di appartenenza nazionale più larga e moderna, ma che è sostanzialmente la stessa e il cui unico vantaggio è la sua maggiore attitudine a fronteggiare le sfide specifiche di un’epoca e di un momento della storia?

Che senso ha cercare di vivere come un cittadino europeo di origini francesi anziché come un francese (o un tedesco, un britannico, un italiano o un lussemburghese, poco importa) se l’obiettivo non è quello di disfarsi del quadro di riferimento, del modello e della mentalità tipici di una nazione?

Ridefinire il patriottismo

So cos'è il patriottismo francese (o quello tedesco, britannico, italiano o lussemburghese). Non so invece cosa sia il patriottismo europeo, né voglio saperlo, perché segnerebbe il fallimento del progetto. O forse voglio saperlo, ma se parliamo del suo omonimo. Manteniamo il nome, se ci teniamo, ma utilizziamolo per descrivere una realtà diversa. Un patriottismo, se proprio vogliamo, ma “costituzionale” nel senso di Dolf Sternberger e Jürgen Habermas e, prima di loro, di Julien Benda nel suo “Discorso alla nazione europea”. Essere europei vuol dire inventare quella nuova idea che, in Europa, è l’attaccamento non a un luogo, ma ad una storia; non a una terra, ma ad un sistema di diritto; non alle radici o, peggio ancora, ad una razza, ma ad un universo di principi e di idee condivisi. Se sono europeo è per finirla una volta per tutte con gli schemi di pensiero nazionali e nazionalisti.

Ripensare l’identità

Un popolo ha un’identità. O quanto meno, crede di averla. Ed è lì che risiede la sua passione collettiva – la sua religione, si può dire, con i fanatismi che l’accompagnano. L’Europa, invece, non ha un’identità. O se ne ha una, o crede di averla, è necessario aprirle gli occhi, sgombrare il campo da questa credenza e spogliarla letteralmente della sua identità.

Un’Europa unita? L’unione fa la forza, e questo varrebbe anche per l’Europa? Sì e no. Non necessariamente, almeno in questo caso. E ad ogni modo, non un’unità nata dalla fusione o da quell’Universale negativo che, come un rullo compressore, appiattisce le singolarità, elimina le individualità, riduce tutte le diversità della realtà europea ad un amalgama indistinto sotto una bandiera comune – un amalgama tanto più generosamente aperto all’esterno, in quanto è vano e privo di contenuti. David Hume, nel suo saggio del 1742 sulla nascita e il progresso delle arti e delle scienze, dice esattamente questo. Da un lato, osserva, la Cina, con il suo vasto impero, una lingua comune, un unico sistema legislativo e persino uno stesso stile di vita. Dall’altro, l’Europa, con i suoi popoli, le sue tradizioni e le sue leggi, inesorabilmente, gelosamente, assolutamente diversi e singolari. Ebbene, sostiene Hume, è in Europa che assistiamo al progresso. È in Europa, insiste, che troviamo l’inventiva. Perché è l’Europa e solo l’Europa che ha prodotto il miracolo di un comunità capace di superare differenze inconciliabili.

Possiamo definire questa comunità “inconfessata”, “immaginaria” o “paradossale”. Possiamo, a seconda dei gusti e degli orientamenti personali, dare il nome che vogliamo alla sua intrinseca irrequietezza. Resta il fatto che quella comunità che è l’Europa non è una fonte di identità. Resta il fatto che il suo principio organizzatore non va cercato nell’uniformità o nell'unicità. Essere europei vuol dire essere consapevoli di un modo indefinibile di stare insieme, nel quale ciò che alimenta le differenze è altrettanto forte di ciò che unisce.

Rifiutare le frontiere

Tutte le comunità umane hanno una frontiera. Tutte hanno un limite territoriale che definisce con esattezza ciascuna di esse. Con la sola eccezione dell’Europa.

Solo l’Europa riesce a sfuggire a quell’ossessione fatale delle precedenti comunità di uomini e donne per le frontiere. E le sfugge per ragioni di principio e per ragioni politiche, per il motivo stesso che ho indicato – perché è una comunità inconfessata, disorganica e virtuale; perché trae alimento dalle nostre menti piuttosto che dal suolo che calchiamo; perché è una comunità non comunitaria, atea, scettica di fronte a tutto quello che di norma consacra le comunità e dà loro un senso. Non può che essere estranea al linguaggio delle frontiere… Nessuna patria, nessuna frontiera.

Nessuna identità, nessuna demarcazione e nessuna frontiera; un europeo è qualcuno che si riconosce in una certa idea della vita comune, del diritto, dei limiti della prospettiva teologico-politica, della laicità, della tolleranza? Se sì, diventa impossibile tracciare una linea di demarcazione. Impossibile stabilire una volta per tutte chi è dentro e chi è fuori. Impossibile, per questa Europa che è ora definita più in termini umani che geografici, dire “Questi sono i miei limiti e questi limiti definiscono il mio continente”.

Riconsiderare le patrie

I greci lo sapevano. È per questo che quando hanno inventato la parola “Europa” hanno dato questo nome ad una dea e ne hanno fatto il simbolo, non di una terra, ma di un passaggio, quasi una trasgressione, e più precisamente, il simbolo della traversata di un mare che collega tra loro due terre. (Ed è del resto la ragione per cui non si possono avanzare obiezioni di principio all’adesione di una Turchia che accetti di riconoscersi nei principi fondatori dell’identità europea.)

Diamo il tempo ad Ankara di allinearsi sul piano dei diritti umani. Diamole il tempo di affrontare, attraverso un lavoro di memoria, i fantasmi del genocidio. Diamole il tempo di arginare definitivamente quella marea nera che è la recrudescenza dell’antisemitismo. A quel punto l’Europa non avrebbe alcun motivo – a meno che non voglia rinnegare se stessa – di escludere la Turchia dal suo spazio metafisico e, di conseguenza, da quello fisico.

Permettetemi di sintetizzare questi concetti. Se l’Europa non è una patria, se non ha né confini, né identità è perché è un’entità politica. Una strana entità, certo. Un’entità nuova, sconosciuta nei bestiari o nei trattati, un oggetto politico non identificato – una vera e propria chimera – che spetta ora a noi costruire.

Ma quello che è certo è che si tratta di un’entità politica – qualcosa di completamente diverso da quel “progetto di civiltà”, oscuro e dubbio sul piano intellettuale, instancabilmente propugnato dagli pseudo-europei. No, se dovessimo ricominciare tutto da capo, certamente non comincerei dalla cultura.

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